Partito politico italiano. La sua costituzione quale
Partito Comunista, "sezione italiana della Terza Internazionale", fu decisa a
Livorno il 21 gennaio 1921, al termine del XVII Congresso del Partito
socialista, avendo esso rifiutato di aderire all'ultimatum di Mosca che esigeva
l'espulsione dei riformisti dalla Terza Internazionale Comunista (designata
più spesso col termine di
Comintern), alla quale aveva aderito nel
1919. Pertanto, dopo la lettura dei risultati che avevano visto nettamente
maggioritaria la mozione di centro (massimalista), firmata da Serrati, con
98.000 voti, seguita da quella di sinistra (comunista) con 58.000 voti, e dalla
destra (riformisti turatiani della lista di concentrazione) con 14.000 voti,
venne dato l'annuncio della scissione dell'ala sinistra che, del resto, operava
già come un partito nel partito, nella convinzione di uno sviluppo
europeo della rivoluzione sovietica. L'atto formale della scissione fu sancito
da un intervento del leader della frazione comunista, l'ingegnere napoletano
Amadeo Bordiga che aveva dietro di sé già una lunga e coerente
tradizione di sinistra rivoluzionaria, risalente alla sua militanza nella
Federazione giovanile socialista e alla costituzione nel 1912 della frazione
"astensionista", facente capo al gruppo del
Soviet. Si trattava di una
frazione piccola (4% degli iscritti al PSI), ma diffusa su tutto il territorio
nazionale, e che era stata sciolta alcuni mesi prima del Congresso di Livorno,
per dar vita al Fronte unico comunista (luglio 1920), unitamente a una parte
della sinistra massimalista e al gruppo torinese Ordine Nuovo. A conclusione del
proprio intervento Bordiga invitò i delegati che avevano votato la
mozione comunista ad abbandonare la sala del teatro Goldoni, convocandoli al
Teatro San Marco dove si tenne immediatamente il I Congresso comunista,
conclusosi con l'elezione del Comitato centrale, chiamato a sua volta ad
eleggere il Comitato esecutivo, di cui facevano parte, oltre a Bordiga, Ruggiero
Grieco (bordighiano), Umberto Terracini (ordinovista) e i due operai milanesi,
già massimalisti, Luigi Reposi e Bruno Fortichiari. La ripartizione dei
posti nel Comitato centrale era stata fatta in base a un calcolo numerico degli
iscritti che ciascuno dei tre gruppi unificati aveva portato al nuovo partito.
Pertanto, la maggioranza - otto su quindici - spettò ai membri di
provenienza massimalista. Seguivano gli ex astensionisti bordighiani, con cinque
esponenti, e gli ordinovisti con Gramsci e Terracini. Nonostante fossero
numericamente in minoranza, i bordighiani ebbero tuttavia un grandissimo peso
politico, riuscendo ad assorbire gli ex massimalisti e lo stesso gruppo
gramsciano dell'Ordine Nuovo, gruppo che aveva diretto, insieme ai sindacalisti
rivoluzionari, i moti dell'aprile 1920 e il movimento di occupazione delle
fabbriche. Il programma di rinnovamento degli ordinovisti poggiava
essenzialmente sull'organizzazione e sull'azione autonoma dei consigli di
fabbrica, costituitisi a Torino sin dal 1912. Si trattava di un'esperienza,
basata sullo spontaneismo della classe operaia, del tutto estranea al gruppo
bordighiano che operava prevalentemente nel Meridione, dove il proletariato era
di tipo contadino o sottoproletariato urbano. Diverse erano anche le radici
culturali di Bordiga e di Gramsci. Il primo, infatti, teso soprattutto a
ricostituire un'ortodossia marxista, condannava la filosofia idealistica
"borghese"; non mancando di esprimere riserve sulla stessa rivoluzione
sovietica, alla quale comunque non attribuiva un carattere di guida, valido per
i paesi a capitalismo avanzato. Gramsci, invece, che aveva subito profondamente
l'influenza della filosofia classica tedesca, del crocianesimo e delle dottrine
volontaristiche bergsoniane, rifiutava ogni schematizzazione del marxismo,
mentre della rivoluzione sovietica aveva inizialmente colto soprattutto gli
elementi volontaristici e libertari. Nella stessa concezione del partito le
posizioni di Gramsci e di Bordiga apparivano per certi lati antitetiche.
Infatti, secondo la linea bordighiana, il processo di rinnovamento doveva
avvenire "dall'alto", essere cioè portato avanti dal centro dirigente del
partito, inteso come uno stato maggiore rivoluzionario, come un'unione di
marxisti ortodossi che si erano assunti il compito di indicare alla classe
operaia la via della liberazione. Gramsci credeva invece in un rinnovamento "dal
basso", attuato per iniziativa autonoma della classe operaia sui centri di
produzione. Nonostante queste divergenze di fondo, al suo nascere il
PCI
si presentò oltremodo compatto e disciplinato attorno al centro
dirigente. La piattaforma su cui nacque il
PCI ebbe un'impronta
nettamente bordighiana, di estrema sinistra, che rimase immutata nei primi anni
di vita del partito, tanto che dalla concentrazione attorno a Bordiga restarono
fuori solo Tasca e Graziadei (destra) e, per ragioni personali, Bombacci.
Pertanto, ai suoi inizi, il
PCI si presentava come un partito piccolo,
con uno scarso seguito fra le masse, ma oltremodo compatto e combattivo,
cioè come un partito rivoluzionario, monolitico, ferreamente
disciplinato. Nel momento però in cui nasceva così strutturato, il
PCI non poteva più costituire un punto di forza per il movimento
operaio, dato che erano venute a mancare le condizioni oggettive per uno
sviluppo rivoluzionario. Infatti, superato sin dall'estate 1920 il punto
culminante di slancio rivoluzionario, ebbe inizio il riflusso e la
controffensiva contro il movimento operaio. Del pericolo incombente e della
sterilità di una linea di intransigente rivoluzionarismo sembrò
rendersi presto conto l'Internazionale comunista. Ma quando questa cercò
di affrettare i tempi della fusione con la sinistra socialista e di trovare
all'interno del
PCI un contrappeso all'estremismo bordighiano, esso aveva
conquistato ormai interamente il partito, che si oppose compatto
all'unificazione col PSI. Pochi mesi dopo la sua costituzione il
PCI
dovette affrontare, in condizioni di estrema debolezza organizzativa, le
elezioni politiche. I risultati (304.719 voti, 16 seggi) furono notevolmente
inferiori al peso numerico che la frazione comunista aveva nel PSI. Ma
l'insuccesso non fu tanto determinato dal modo burocratico e settario con cui
era stata condotta la campagna elettorale, ma soprattutto dall'ondata di
reazione fascista che si abbatté con particolare accanimento sul piccolo
partito. I comunisti infatti poterono presentare proprie liste solo in 27
circoscrizioni su 40, in molte località gli fu impedita ogni propaganda e
in numerosi centri le schede comuniste vennero date alle fiamme.
Contemporaneamente il partito era impegnato in un duro braccio di ferro con l'IC
(l'Internazionale Comunista considerata come un partito unico mondiale, di cui i
singoli partiti nazionali costituivano soltanto delle sezioni) che aveva
scatenato la lotta aperta contro Bordiga, esigendo da parte del
PCI
l'azione di una tattica articolata in un vasto fronte unico della classe
operaia. L'Internazionale aveva infatti cominciato sin dal giugno 1921 un'azione
tendente all'espulsione dei riformisti dal PSI (avvenuta al Congresso di Roma
dell'ottobre 1922), per consentire la formazione di un grande partito comunista
unificato, non riuscendo però a trovare nel
PCI altri
interlocutori all'infuori della minoranza di destra. Solo nel 1923-24, quando
Gramsci aveva ormai allacciato ampi contatti coi leader sovietici, le cose
cominciarono lentamente a cambiare. Gramsci, che aveva reso definitivo il
proprio distacco dal bordighismo già nel corso del 1923, riuscì a
far accettare la propria linea agli ex ordinovisti, cioè al gruppo che si
chiamò poi di "centro" e di cui facevano parte Terracini, Togliatti,
Scoccimarro. Tutto questo avveniva nel periodo compreso tra la marcia su Roma e
il delitto Matteotti. L'assassinio del deputato socialista aprì nel
giugno 1924 una crisi politica che contribuì ad accelerare nel
PCI
il processo di distacco dal bordighismo. Ma nel frattempo, in seguito alla
malattia e alla morte di Lenin, era cambiata o stava per cambiare la politica
dell'Internazionale, che al suo V Congresso (giugno-luglio 1924) cominciò
a parlare della socialdemocrazia come di un'ala del fascismo
(
socialfascismo). Le ripercussioni che la svolta dell'IC ebbero sul
PCI fecero sì che, contemporaneamente all'intensificarsi della
lotta politica e ideologica contro Bordiga, si accentuava anche la lotta contro
la "destra", cioè contro Tasca, che negli anni precedenti era stato
l'unico nel
PCI a sostenere la linea dell'Internazionale. In seguito a
quella che per oltre un decennio (1924-35) fu la politica comunista
internazionale dettata da Stalin, ma anche in conseguenza del prevalere nel PSI
della corrente antifusionista (Nenni-Vella), l'unificazione non poté
essere attuata che limitatamente alla corrente "terzina" (agosto 1924); essa era
capeggiata dal vecchio e prestigioso Serrati, che portò al
PCI
qualche migliaio di nuovi iscritti e quadri dirigenti quali Maffi, Di Vittorio,
Li Causi, Riboldi, Trevisani e il giovane Agostino Novella. Durante il 1925 il
nuovo centro dirigente si consolidò e il partito reclutò nuovi
aderenti, tanto da portare, in piena bufera fascista, il numero degli iscritti a
circa 27.000. Inoltre accrebbe il proprio prestigio politico nel Paese, grazie
al suo atteggiamento nei confronti del fascismo e dell'opposizione aventiniana.
Quando infatti l'Aventino cominciò a mostrare i propri limiti, i
comunisti decisero di rientrare in Parlamento per continuare in quella sede la
propria battaglia politica. Nel frattempo, si andava preparando nella
clandestinità il III Congresso del partito (Lione, 20-26 gennaio 1926),
le cui tesi, elaborate da Gramsci in collaborazione con Togliatti, documentano
il cammino compiuto dal
PCI dopo il Congresso di Roma del 1922, pur non
segnando ancora un netto distacco dalle iniziali posizioni estremiste. Con il
Congresso di Lione si chiuse un'epoca nella vita del
PCI e fu posto
termine alla crisi interna, così da determinare uno schieramento stabile
di forze tale da consentire una maggiore presa del partito sulle masse. Bordiga,
la cui mozione aveva ottenuto solo il 9,2% dei voti, entrò con Venegoni a
rappresentare la Sinistra nel Comitato centrale, ma la nuova segreteria,
capeggiata da Gramsci, risultò tutta centrista, con Grieco, Camilla
Ravera, Scoccimarro, Terracini e Togliatti. Nel corso del 1926 il partito fu
costretto a passare dalla semiclandestinità alla totale illegalità
e alla fine dell'anno, in seguito all'entrata in vigore delle leggi eccezionali,
il gruppo dirigente risultava falcidiato dagli arresti, tra cui quello di
Gramsci, condannato a vent'anni e dimesso nel 1933 per essere consegnato a un
letto d'ospedale, dove morirà nel '37 e quello di Terracini, condannato a
ventitré anni e liberato solo nell'agosto del 1943. Questa prima ondata
di arresti, anziché frenare lo slancio del partito, lo
intensificò. Forze nuove furono attratte dal
PCI che nel 1927
poteva contare su oltre seimila militanti attivi, mentre innumerevoli erano le
testate minori e i manifestini distribuiti a migliaia nelle fabbriche. Postosi
però così allo scoperto, il partito dovette pagare la mancata
adozione di opportuni metodi di organizzazione clandestina, e la conseguente
infiltrazione di numerose spie, con un'ondata di arresti (oltre duemila
già a metà del 1927), cui seguirono condanne durissime da parte
del Tribunale speciale. Alla testa del partito che aveva organizzato in Francia
un "centro estero" per salvaguardare la sua continuità di direzione, si
trovava Togliatti che, pur senza la qualifica di segretario generale, possedeva
già sufficiente autorità e capacità di mediazione per
garantirne l'unità, almeno sino a quando la "svolta" dell'Internazionale
non provocò le gravi lacerazioni del 1929-30. In seguito alla nuova
ondata di arresti i comunisti, che nel gennaio 1928 avevano tenuto a Basilea la
loro seconda Conferenza nazionale, furono costretti a prendere atto delle mutate
condizioni politiche e dello scadimento della resistenza operaia in un Paese
già completamente dominato dal regime fascista, qual'era l'Italia del
1928, e quindi a ricercare nuovi sbocchi alla propria azione. Sulla base delle
indicazioni già emerse al Congresso di Lione, fu deciso di indirizzare
l'azione politica verso forme di agitazione legale, avviando un lavoro di
penetrazione nelle organizzazioni fasciste, in particolare nei sindacati. Anche
questo lavoro interno fu però presto interrotto da una nuova ondata di
arresti, in seguito all'oscuro attentato alla Fiera di Milano, attribuito da
Mussolini alla "bestiale criminalità dell'antifascismo", ma probabilmente
ordito dall'estremismo fascista, che provocò venti morti e varie decine
di feriti tra la folla in attesa del corteo reale. La nuova ondata repressiva
cancellò praticamente ogni traccia di organizzazione del partito in
Italia, mentre la direzione fu costretta a prendere atto del mutato clima del
comunismo internazionale, cioè della sterzata a sinistra sancita nel
corso del VI Congresso del
Comintern (luglio - settembre 1928) e
dell'intransigente orientamento nei confronti della socialdemocrazia. La lotta
di Stalin contro la Destra capeggiata da Bucharin aveva infatti investito in
pieno l'Internazionale, ponendo il problema della totale subordinazione delle
varie sezioni nazionali al partito sovietico. In tale clima il
PCI si
trovò costretto a operare in modo da evitare possibili accuse di
opportunismo e di destrismo. Ciò che però non riuscì a
evitare fu una grave crisi al proprio interno, che portò all'espulsione,
nel giro di pochi mesi, di ben cinque degli otto membri dell'Ufficio politico:
prima Tasca, poi i cosiddetti "tre", cioè Leonetti, Ravazzoli, Tresso,
infine Silone. Nel 1929-30 venne infatti a crearsi nel
PCI quella
spaccatura che si era riuscita a evitare negli anni in cui era avvenuta
l'emarginazione di Bordiga da parte del gruppo guidato da Gramsci. Ora Bordiga
era fuori causa, confinato dapprima a Ustica poi a Ponza, dove conduceva opera
"frazionistica" fra i numerosi comunisti confinati, così da essere
espulso dal partito nel 1930. Fuori causa era anche Gramsci, in carcere a Turi
di Bari e impossibilitato a fare accettare al partito il proprio punto di vista
sulla "svolta", da cui dissentiva anche Terracini che, a sua volta, non
risparmiò dal carcere le proprie critiche al "nuovo corso". D'altra
parte, sul piano delle scelte politiche, il compito di chi stava in carcere si
presentava forse più facile rispetto a quello di chi aveva la
responsabilità di un partito che dipendeva anche finanziariamente dal
Comintern e la cui unica speranza per la ripresa del movimento in Italia
era strettamente legata al rafforzamento del socialismo sovietico. Così,
mentre Gramsci proseguiva in carcere un'elaborazione teorico-politica tale da
indurlo a parlare ai compagni detenuti di "collegamento con gli strati sociali
intermedi" e della necessità di un'azione comune con le altre forze
politiche antifasciste, anticipando in parte gli indirizzi futuri del partito,
lo schieramento antifascista all'estero si presentava quanto mai diviso e il
PCI stava vivendo la propria crisi interna più drammatica. La
questione che s'imponeva al gruppo dirigente era se accettare o meno la
"svolta", se porsi o meno in urto frontale col
Comintern al quale, del
resto, non sarebbe stato difficile sconfessare in blocco il gruppo dirigente del
piccolo, illegale e dissanguato
PCI, magari combinando, come si temeva,
"una direzione di sinistra, con qualche ragazzo della scuola leninista". Il
Comitato centrale decise pertanto di sottomettersi e pronunciò
un'autocritica, ammettendo errori di linea e decretando l'espulsione di Angelo
Tasca che si era dichiarato non disposto a condannare le posizioni sostenute
sino allora. In questo clima di estrema tensione ebbe inizio un lavoro di
riorganizzazione del partito, teso a ridurre la distanza tra la realtà
italiana e il gruppo dirigente emigrato. Un lavoro con cui il
PCI
intendeva riaffermare la propria presenza in Italia, sfuggendo al destino di
diventare un partito emigrato. Anche questa "svolta" interna non mancò
però di provocare un nuovo conflitto al vertice, tale da determinare la
spaccatura dell'Ufficio politico in due tronconi: da una parte, Togliatti,
Camilla Ravera, Longo e, per la Federazione giovanile, Secchia; dall'altra,
Tresso (Blasco), Leonetti, Ravazzoli, che si opponevano al ripristino di un
centro operativo in Italia, affermando che il partito non poteva continuare a
dissanguarsi facendo "regali a Portolongone". I "tre", inoltre, attaccavano la
posizione di Togliatti, accusandolo di opportunismo e mettendo in rilievo le
contraddizioni fra le sue recenti posizioni e quelle espresse negli anni
precedenti. Nel giugno 1930 essi vennero espulsi, mentre il partito riaffermava
la propria presenza in Italia, riuscendo a capovolgere i precedenti rapporti di
forza all'interno del movimento operaio, con un reclutamento che si può
già definire di "massa" e che comprendeva anche giovani quadri
intellettuali, tra cui il gruppo napoletano costituito da Giorgio Amendola,
Emilio Sereni, Manlio Rossi Doria, Eugenio Reale. Il difficile compito di
ricostituire il Centro interno venne affidato a Camilla Ravera (Silvia), il cui
lavoro si indirizzò soprattutto verso la diffusione della stampa. I
risultati non tardarono a venire: in ottobre i comunisti legati al Centro
superavano i cinquemila, localizzati soprattutto nell'Italia
centro-settentrionale. L'attività del partito continuò, nonostante
l'arresto di centinaia di militanti e di vari dirigenti, tra cui la stessa
Ravera alla quale subentrò Pietro Secchia, a sua volta arrestato
nell'aprile dell'anno successivo, sotto la cui direzione il Centro interno
organizzò le riunioni preparatorie del IV Congresso del partito, svoltosi
in Germania, a Colonia, nel 1931. Per quanto le indicazioni del Congresso di
Colonia fossero di continuare, intensificandola, l'azione clandestina al fine di
essere "sempre presenti nel paese", questa si andò invece forzatamente
affievolendo a causa di nuove, ripetute, ondate di arresti che provocarono
ancora gravi perdite, come quella del giovane Giancarlo Pajetta. Inoltre, si
dovette registrare un consolidamento del regime, la cui propaganda sulla
"socialità" e sull'"anticapitalismo" della dottrina fascista non aveva
mancato di fare presa su larghi strati popolari e soprattutto sulle più
giovani generazioni. La nuova realtà europea, venutasi a creare con la
conquista hitleriana del potere in Germania, aprì nel 1933 un processo
che portò all'elaborazione di una linea nuova, basata sull'unità
d'azione coi socialisti, cioè sulla strategia dei fronti popolari. Linea
che culminò nel settimo e ultimo Congresso dell'Internazionale comunista
(luglio-agosto 1935). La nuova "svolta" dell'Internazionale portò i
partiti comunisti europei a contrapporre al fascismo linee politiche e parole
d'ordine democratiche e nazionali. Nonostante il suo rapido allineamento e il
conseguente rifiuto degli indirizzi precedenti, non furono risparmiate al
PCI aspre critiche da parte dei dirigenti sovietici che lo accusavano di
essere "uno dei partiti meno bolscevizzati", di non avere capito gli aspetti
caratteristici della situazione italiana e di non aver svolto un'adeguata
attività "all'interno delle organizzazioni di massa del fascismo", ma di
essersi chiuso nel "carbonarismo", rimanendo "fuori dalla vita delle masse,
fuori dalla vita del paese". Una critica ovviamente ingiusta per un partito che
aveva tentato a più riprese di riannodare le fila della propria
organizzazione e che si era dissanguato dando alle carceri fasciste ben 4.030
dei 4.671 condannati dal Tribunale speciale e ottomila dei diecimila condannati
al confino. Il primo patto d'unità d'azione tra
PCI e PSI venne
firmato il 15 agosto 1934. Si trattava di un punto di partenza, ancora lontano
dalla vera e propria alleanza politica sancita dalla svolta dell'Internazionale
e concretamente attuata con il nuovo patto tra comunisti e socialisti firmato
nel luglio 1937. Si trattava di un'alleanza, volta all'impostazione di un nuovo
discorso politico e di un nuovo tipo di collegamento con le masse e con i
giovani. Questo lavoro di massa venne portato avanti contemporaneamente alla
preparazione della lotta in campo aperto contro il fascismo, prima in Spagna,
dove i comunisti italiani combatterono sotto la bandiera del volontarismo
garibaldino, poi nelle fabbriche in cui si ebbe una vasta ripresa della
propaganda e dell'agitazione, che culminò negli imponenti scioperi a
Milano e Torino nel marzo-aprile 1943, infine nella Resistenza e nella lotta
partigiana, in cui i comunisti, organizzati nelle Brigate Garibaldi,
costituirono la grande maggioranza dei partigiani combattenti. Lo scioglimento
ufficiale del
Comintern nel maggio 1943, facilitò l'azione
"patriottica" del
PCI, il cui nuovo indirizzo di lotta "unitaria" e
"nazionale" andò meglio precisandosi dopo il rientro in Italia di
Togliatti (marzo 1944), culminando nella partecipazione al governo Badoglio e
nella parola d'ordine "tutto per la guerra contro i Tedeschi e i fascisti". La
classe operaia veniva pertanto invitata a raccogliersi sotto la bandiera
nazionale, mentre il partito presentava un programma in cui era lasciato
imprecisato il rapporto tra obiettivi "democratici" e obiettivi "socialisti". La
svolta di Salerno ebbe ripercussioni non solo immediate, col rinvio a dopo la
liberazione del problema istituzionale (monarchia o repubblica), ma
delineò la successiva politica del
PCI. A liberazione avvenuta, la
strategia del partito sarà infatti quella già prospettata da
Togliatti in termini di "democrazia progressiva", cioè di un regime
costituzionale garante delle libertà fondamentali. È in questa
prospettiva democratico-parlamentare che vennero annunciati i compiti del
PCI: partito "nuovo", partito di "massa", capace di portare la classe
operaia ad abbandonare le posizioni di critica e di opposizione settaria del
passato "per assumere essa stessa, accanto alle altre forze democratiche, una
funzione dirigente per la liberazione del Paese e per la costruzione di un
regime democratico". La caratteristica prima del nuovo partito era quindi quella
di essere un "partito di massa", cioè in grado di organizzare il
più alto numero di lavoratori in tutti gli strati sociali e nei centri
della vita produttiva. Questo primo obiettivo fu presto raggiunto: i
cinque-seimila del 1943 erano già quasi due milioni all'inizio del '46,
mobilitati per una politica "antifascista, democratica, popolare" che
però, almeno a Roma, non tenne sufficientemente conto del "vento del
Nord", cioè del potenziale rivoluzionario ereditato dalla Resistenza e
della spinta popolare decisa a portare sino in fondo il processo di rinnovamento
dello Stato, modificando le basi economiche e i rapporti sociali costituiti su
di esse. Pertanto, sciolti i CLN e defenestrato il governo Parri, il "vento del
Nord" non venne sospinto verso quella parte del Paese rimasta tagliata fuori
dalla Resistenza. Così la direzione centrale del partito, valutata la
situazione, decise di indirizzare la spinta popolare soprattutto verso obiettivi
istituzionali ed elettorali (nel giugno 1946 il
PCI affermò anche
elettoralmente il proprio carattere di partito di massa, conquistando oltre
quattro milioni di voti). D'altra parte, la direzione del partito non poteva non
tener conto dell'equilibrio delle forze in campo, della presenza degli alleati,
del potere reale delle forze conservatrici, sospinte nell'ombra nel primo
momento della lotta, ma le cui basi economiche rimanevano intatte, per cui,
secondo Togliatti, un'azione rivoluzionaria contro di esse si sarebbe "volta a
danno di chi l'avesse arrischiata". Il
PCI adottò quindi tutta una
serie di misure cautelative per non infrangere l'unità antifascista,
mantenere l'equilibrio politico raggiunto, salvaguardare la propria
partecipazione al governo tripartito (DC-
PCI-PSI). Cautele e compromessi
politici, tra cui clamoroso quello dell'accettazione dell'inserimento dei Patti
lateranensi nella Costituzione repubblicana (art. 7), che ben poco tuttavia
valsero per salvaguardare l'unità antifascista, quando, col rovesciamento
delle alleanze internazionali, si ebbe nel maggio 1947 l'espulsione dal governo
di comunisti e socialisti, cui seguì la rottura dell'unità
sindacale. Negli anni seguenti, in pieno clima di guerra fredda, mentre le
esigenze di rinnovamento economico-sociale venivano accantonate e aveva il
sopravvento la linea "restauratrice", il
PCI non modificò
l'impostazione data, mantenendo fermi i punti fondamentali del programma
approvato nel gennaio 1946 dal V Congresso nel quale era stata delineata la "via
italiana al socialismo". Pertanto, la linea strategica togliattiana, basata
sull'avanzata graduale e pacifica verso il socialismo, "democrazia progressiva",
non subì fratture. Il
PCI continuò a sviluppare la propria
lotta sul terreno della democrazia, in nome della difesa e dell'attuazione della
Costituzione repubblicana, non mancando di lanciare appelli alle forze popolari
cattoliche per un'azione comune. Nel successivo quinquennio di ininterrotto
governo degasperiano sino al '53, il
PCI conobbe uno sviluppo
organizzativo senza precedenti: gli iscritti superarono i due milioni nel 1949,
raggiungendo la punta massima nel 1954, con 2.145.000 tesserati, oltre ai quasi
500.000 iscritti alla Federazione giovanile. Nonostante il clima di crociata e i
ricatti cui fu sottoposto l'elettorato, il 18 aprile 1948 il Fronte popolare
(
PCI-PSI) ottenne oltre otto milioni di voti. Per quanto riuscisse a
mobilitare nelle manifestazioni di piazza masse imponenti, il
PCI
continuò a operare con cautela, evitando di accettare provocazioni e
frenando le spinte rivoluzionarie dei propri aderenti, con una capacità
di controllo sulle masse che si rivelò in occasione dell'attentato a
Togliatti (luglio 1948), quando fu impedito che l'ondata di collera popolare
salisse al punto da offrire il pretesto per privare il partito della
legalità. Pericolo, quello di essere messo fuori legge, che il
PCI
continuò a correre per alcuni anni in un clima di terrorismo spirituale
(nel luglio 1949 il Sant'Uffizio emise la sentenza di scomunica contro i
militanti comunisti), di lotta sociale e di repressione, che nel giro di due
anni provocò oltre sessanta morti, tremila feriti e novantamila arresti
per motivi politici. Repressione e intimidazioni sul lavoro non scoraggiarono
tuttavia le migliaia di militanti attivi, né arrestarono lo sforzo
organizzativo del partito, teso soprattutto a evitare, secondo quanto ebbe a
scrivere Togliatti, da un lato, il pericolo di "cadere nella provocazione e
offrire un pretesto per la sua messa al bando dalla vita politica", e,
dall'altro, quello di "lasciarsi chiudere in una sterile attività di pura
protesta". Il clima era tale da consentire al
PCI di sviluppare la
propria lotta sul terreno della difesa degli istituti democratici, per il
rispetto e l'attuazione delle norme costituzionali. Si trattava di una linea
rigorosamente democratica, accettata però solo formalmente da numerosi
quadri intermedi e da larghi strati della base, amareggiati e delusi, portati a
recriminare sulle occasioni perdute e sulla "Resistenza tradita", sempre in
attesa che qualche evento esterno venisse a sbloccare la situazione, così
da condannare se stessi e il partito, in attesa della fatidica ora X, a una
sostanziale passività politica. Per di più, come ha riconosciuto
un comunista ortodosso quale Pietro Secchia, nella concezione del partito,
rimanevano "elementi di carattere religioso e dogmatico, qualcosa che stava tra
la chiesa e la caserma, un modo di concepire la disciplina che si giustificava
in gran parte negli anni della cospirazione e della lotta armata, che non aveva
più ragione di essere in tempi di vita e di lotta democratica". La
battaglia si fece particolarmente accesa nel 1952-53 contro la cosiddetta "legge
truffa" che avrebbe dovuto assicurare la maggioranza assoluta dei seggi alla DC
e ai partiti con essa apparentati nelle elezioni del 7 giugno 1953. La
coalizione di governo conseguì invece risultati inferiori al previsto,
mentre i commentatori politici dovettero prendere atto del successo delle
sinistre, in particolare del
PCI cui andarono oltre sei milioni di voti.
All'avanzata elettorale non corrispose tuttavia un'avanzata della classe
operaia, anzi il partito dovette prendere atto di un suo arretramento,
confermato nel 1955 dalla perdita della maggioranza nella commissione interna
alla Fiat, dove nel giro di un anno la CGIL passò dal 63% dei voti al
36,7%. La diversa valutazione che ne dettero comunisti e socialisti stava a
indicare la frattura venutasi a creare sul piano politico nello schieramento di
classe. Mentre il
PCI ricercava le cause dell'arretramento soprattutto
sul terreno socio-politico, attribuendolo a errori di valutazione e al mancato
adeguamento delle forme di lotta alle mutate situazioni produttive e aziendali,
il PSI andava svolgendo la propria analisi essenzialmente sul piano politico,
attribuendo l'arretramento alla stanchezza e alle delusioni della classe
operaia, al suo distacco dal
PCI in seguito al processo di
destalinizzazione e agli eventi tedesco-polacco-ungheresi (rivolta di Budapest).
Tesi confermata dall'abbandono del partito da parte di vari quadri intermedi e
da alcune defezioni clamorose, rapide conversioni e passaggi più o meno
immediati alla socialdemocrazia, come quello di Eugenio Reale e quello,
ideologicamente più meditato, di Antonio Giolitti, passato al PSI. La
nuova situazione interna e internazionale non modificò tuttavia la linea
di fondo del
PCI che continuò a perseguire una politica unitaria,
impegnandosi nel contempo a ricercare le cause dell'allentamento della presa sui
centri produttivi e ad adeguare la propria azione alle mutate condizioni
socio-economiche del Paese. Il punto di connessione nella strategia e nella
tattica del partito tra obiettivi democratici e finalità socialiste venne
precisato nella dichiarazione programmatica votata all'VIII Congresso (Roma,
dicembre 1956) in cui fu ribadito che il
PCI non considerava "la
Costituzione repubblicana come un espediente per utilizzare gli strumenti della
democrazia borghese fino al momento dell'insurrezione armata, per la conquista
dello Stato e per la sua trasformazione in uno Stato socialista, ma come un
patto unitario liberamente stretto dalla grande maggioranza del popolo italiano
e posto alla base dello sviluppo organico della vita nazionale per tutto un
periodo storico". In sede congressuale Togliatti denunciò due ostacoli
sulla via del rinnovamento del partito e sulla via italiana al socialismo: "il
settarismo massimalistico e il revisionismo riformistico. Il primo si chiude in
se stesso nell'attesa del grande giorno. Il secondo piega i ginocchi davanti al
capitalismo nell'attesa che da sé diventi socialismo". La polemica
togliattiana era indirizzata verso precisi bersagli. Infatti, in quegli anni,
stanchezza, delusioni e defezioni da destra e da sinistra, pur non avendo
ripercussioni negative sul piano elettorale, non mancarono di creare vuoti
nell'apparato e una contrazione del numero degli iscritti che nel decennio
seguente non si riuscì ad arrestare, così da scendere sotto il
milione e mezzo di tesserati nel 1968, cioè l'anno in cui il partito
ottenne il suo maggior successo elettorale, superando gli otto milioni e mezzo
di voti. Ancora più preoccupante della flessione quantitativa era
però quella qualitativa, cioè la diminuzione della presenza
operaia (la punta più bassa fu toccata nel 1960 con appena il 37,4%), il
raddoppio dei lavoratori fuori-produzione, il calo dei militanti nelle aree di
maggiore sviluppo socio-economico (gli iscritti nell'area del "triangolo
industriale" che costituivano il 33,4% nel '46 erano scesi al 20,4% nel '68),
l'aumento dell'età media (solo il 19,5% dei tesserati, esclusi gli
iscritti alla FGCI, aveva nel 1969 meno di trent'anni), mentre la crisi
organizzativa della Federazione giovanile riduceva il numero dei suoi aderenti
dai circa 500.000 del 1951 a poco più di 100.000. Le grandi linee
indicate dall'VIII Congresso furono riprese in quelli successivi (Roma, febbraio
1960 - dicembre 1962) che misero in evidenza la pluralità delle posizioni
metodologiche e pratiche presenti nel partito, pur non esprimendosi in vere e
proprie correnti. In essi vennero ulteriormente precisati i termini della via
italiana al socialismo, da attuarsi nell'ambito dell'ordinamento
democratico-costituzionale, arricchito di nuove e più articolate forme di
rappresentanza (consigli di fabbrica, organismi rappresentativi centrali), tali
da conferire al sistema parlamentare una base di rappresentanza più
aderente alla vita produttiva e all'organizzazione politica periferica del
Paese. Questa rimase la linea del partito, anche dopo la morte di Togliatti
(Yalta, agosto 1964) e l'assegnazione della segreteria a Luigi Longo poi
affiancato, come vicesegretario, da Enrico Berlinguer. Il rinnovamento
procedette lungo la via democratica al socialismo, precisandosi nella strategia
delle riforme e in una tattica di fiancheggiamento dei gruppi di opposizione
interni allo schieramento di centro-sinistra, in particolare sinistra socialista
e ACLI. L'opposizione dell'ala sinistra contro questo indirizzo, volto
soprattutto a una più forte presenza del partito nelle istituzioni
rappresentative, andò intensificandosi in vista delle assemblee
preparatorie del XII Congresso (Bologna, gennaio 1969). La "nuova sinistra"
rimproverava al partito di essere andato sempre più restringendo la sua
visione dei compiti specificatamente socialisti e di essere in ritardo
nell'analisi dei nuovi fenomeni sociali. E, in effetti, le nuove forme di lotta
sociale, manifestatesi nel corso del 1968, avevano colto di sorpresa il partito
che solo in un secondo tempo tentò di svolgere un'azione di recupero nei
confronti del movimento studentesco e di adeguamento alle lotte operaie,
conducendo tuttavia la propria azione su una piattaforma prevalentemente
difensiva. Con l'acutizzarsi dello scontro sociale nel corso del '69, andarono
evidenziandosi, nel dibattito interno, tendenze contrapposte, su un arco assai
differenziato di posizioni che ponevano al centro Berlinguer e Ingrao e ai poli
opposti Amendola e il gruppo della "nuova sinistra", che chiedeva una radicale
ristrutturazione strategica e organizzativa del partito, tale da farne un punto
di riferimento per tutta la sinistra extraparlamentare. Mentre rientrava la
proposta amendoliana di disponibilità governativa, riassorbita nella
politica duttile, articolata e gradualistica del partito, rimanevano vive le
richieste della Sinistra (Caprara-Magri-Natoli-Pintor-Rossanda) che si era
raccolta attorno alla rivista "Il Manifesto", bollando come fallimentare la
politica comunista degli ultimi dieci anni. Dopo l'espulsione del gruppo dal
PCI, "Il Manifesto" si proponeva come centro di coagulazione per la
Sinistra rivoluzionaria e per le forze dissidenti interne a partiti e sindacati,
considerando ormai un dato di fatto l'acquisizione riformistica del
PCI e
il suo inserimento nell'area di potere governativa. Il XII Congresso del partito
(Bologna, 1969) ribadì comunque le due linee fondamentali della strategia
politica del
PCI in quei difficili anni: la sua disponibilità
governativa come "alternativa politica" ai governi di centro sinistra in piena
crisi e, sul piano ideologico, l'autonomia nei confronti del movimento comunista
internazionale, pur nell'ambito di una fedeltà ideologica senza riserve.
Nel marzo del 1972, in occasione del XIII Congresso, Enrico Berlinguer venne
eletto segretario del partito, ma il congresso fu importante anche perché
sancì la nuova proposta politica che doveva poi caratterizzare l'azione
del partito nel corso degli anni Settanta. Proposta che indicava come unica
alternativa possibile al monopolismo capitalistico una politica di alleanza tra
i ceti medi e le forze proletarie, e che il segretario Berlinguer, nel 1973,
riassumeva nella formula del cosiddetto "compromesso storico"
(V.). Questa nuova strategia doveva concretizzarsi
negli atti pratici in un atteggiamento di opposizione morbida e flessibile nei
confronti del governo di centrosinistra varato nel 1973. Dopo il successo del
fronte del "no" nel referendum per l'abolizione della legge sul divorzio, che
vide l'estrema destra e la DC isolate nei confronti dei partiti laici e della
sinistra, schierati in difesa della legge, si accentuarono le pressioni del
PCI nel senso di un suo diretto coinvolgimento al governo. Ma la proposta
comunista incontrò la decisa opposizione della DC. Tuttavia i
significativi successi del
PCI nelle elezioni amministrative del 1975
(32%) e in quelle politiche del 1976 (34,4%) ribadirono l'urgenza della
"questione comunista e la necessità di un confronto col
PCI per
varare una politica capace di far uscire il Paese dalla crisi". Partito
comunista che ormai, oltre a rappresentare una larga parte dell'elettorato,
governava direttamente le più importanti città italiane e ben
sette regioni. La proposta di "compromesso storico" e la necessità del
coinvolgimento dei comunisti nell'area di governo trovò così ampi
consensi nei partiti laici (PRI) e nel partito socialista, e anche la DC, con la
proposta politica della "solidarietà nazionale" elaborata da Aldo Moro,
assunse nei confronti del
PCI una posizione più disponibile e
aperta alla collaborazione. Nacque così nel 1976 un governo monocolore
democristiano che, per la prima volta nel dopoguerra, ottenne la "non sfiducia"
del
PCI e la marcia di avvicinamento dei comunisti al governo venne
ribadita nel 1978, allorché il governo monocolore della DC, presieduto da
G. Andreotti, ottenne il voto di fiducia del
PCI. A questo punto
però tale evoluzione politica si arrestò. I motivi che portarono a
questa inversione di tendenza devono essere ricercati nelle polemiche sul caso
Moro che divisero PSI e
PCI e che finirono per ostacolare la stessa
politica di solidarietà nazionale, ma anche nel prevalere all'interno
della DC delle correnti che da sempre si erano opposte alla politica del
compromesso storico. Devono però essere ricercati anche all'interno dello
stesso
PCI, dove la politica del compromesso storico non aveva trovato il
partito schierato su posizioni unitarie e aveva anzi generato
perplessità, atteggiamenti critici e incomprensioni tra i vertici e
larghi settori della base. Gradualmente il
PCI venne così
abbandonando la politica seguita negli ultimi anni e già sul finire del
1978 ("Festival dell'Unità" di Genova) Berlinguer delineò il nuovo
obiettivo politico del partito, ossia la costruzione di una "terza via al
socialismo", diversa sia dall'esperienza dei paesi comunisti dell'Europa
orientale, sia dal modello delle socialdemocrazie nordiche. Nel 1979 il
PCI uscì così dalla maggioranza per assumere una posizione
di netta opposizione nei confronti del sistema di potere della DC. Del resto la
politica della ricerca di un accordo con il
PCI veniva decisamente
abbandonata anche dalla stessa DC, che nel 1980 assumeva come obiettivo politico
la ricerca di una intesa di governo con il PSI e con i partiti laici. All'inizio
degli anni Ottanta il
PCI elaborava una proposta di "alternativa alla DC"
che doveva basarsi sull'unità delle sinistre e allargarsi al contributo
dei partiti laici e alle forze cattoliche progressiste. La formazione di un
governo a presidenza socialista (luglio 1983), nei confronti del quale il
PCI si schierava all'opposizione, rendeva però particolarmente
difficile l'attuazione di questo progetto politico. Tra l'altro, i rapporti con
il PSI si complicavano in seguito al varo da parte del governo Craxi del decreto
di S. Valentino (1984), relativo al taglio di tre scatti della scala mobile. Nel
1984 scompariva improvvisamente, in seguito ad un attacco cardiaco occorsogli
durante un comizio, Enrico Berlinguer; nella sua carica di segretario gli
succedeva Alessandro Natta. L'ondata emotiva che scaturiva dalla sua morte
permetteva al
PCI di superare la DC alle elezioni europee del 1984,
grazie anche al forte calo di consensi registrato dal partito di maggioranza. Si
trattava tuttavia di un risultato episodico, poiché il partito dimostrava
in seguito di risentire dell'assenza di una guida carismatica del peso di
Berlinguer. Alle amministrative del 1985, infatti, i comunisti subivano una
secca perdita che costava loro l'estromissione da numerose giunte locali.
All'interno del partito cominciava intanto ad acuirsi il contrasto fra l'ala
"migliorista", di ispirazione riformista, e quella "continuista", più
legata all'ortodossia comunista. L'elezione di Gorbaciov in Unione Sovietica
alimentava di fatto il dibattito interno fra le due correnti e poneva le basi
per un rinnovamento profondo del partito. In seguito alle elezioni del 1988,
dalle quali il
PCI usciva nuovamente sconfitto, Natta rassegnava le
dimissioni, favorendo l'elezione a segretario del partito del già
designato Achille Occhetto. Questi si trovava a dover gestire uno dei momenti
più difficili del comunismo italiano, a causa dei tumultuosi avvenimenti
che stavano caratterizzando l'ultimo scorcio degli anni Ottanta. Le sempre
maggiori aperture dell'URSS al mondo occidentale e, dal 1989, il crollo dei
regimi comunisti nei Paesi dell'Est, costringevano Occhetto a porre la delicata
questione del cambiamento del nome del suo partito; l'iniziativa era intesa a
prendere le distanze dalla disfatta del socialismo reale, rinunciando al
principio, ormai superato, del centralismo e sottolineando la natura riformista
del movimento comunista italiano. Dopo un acceso dibattito che coinvolgeva tutta
la base dei militanti, nel gennaio 1991, durante il Congresso di Rimini, il
comitato centrale del
PCI ratificava la proposta avanzata dal suo
segretario; il nome scelto per la nuova formazione era Partito Democratico della
Sinistra (V. PDS),
il simbolo, una quercia con alla base la vecchia effige. La dura resistenza al
cambiamento opposta dal cosiddetto "zoccolo duro" del partito, guidato da
Cossutta, determinava una secessione da cui scaturiva una nuova formazione,
denominata Rifondazione Comunista
(V. COMUNISTA, RIFONDAZIONE).